di Antonio Sciuto
La crisi della produzione industriale attanaglia l’Italia e ancora di più un Nordest in cui il calo della domanda dalla Germania, primo paese per esportazioni dal Veneto, si riflette in maniera drammatica sul territorio. Durante il 2024 il ricorso alla cassa integrazione da parte delle aziende venete si attesta a +44% rispetto al periodo precedente e l’export ha perso in pochi mesi 1,6 miliardi di euro segnando un ulteriore record negativo. Ai fattori contingenti, come la guerra e la crisi dell’automotive, si aggiunge anche l’ulteriore incertezza legata alla partita dei dazi. Un momento che è dunque propizio per l’industria degli armamenti, che si sta sempre più apertamente offrendo come ancora di salvezza per l’economia italiana, essendo uno dei pochi segmenti della nostra industria che segna una crescita costante. Seppellita l’era del green new deal, la scelta di investire in questo settore da parte dell’Unione Europea, sta avendo un’eco importante anche in Veneto.
Qui i fondi del Rearm Europe, che si iscrive in un più ampio quadro di riarmo mondiale, fanno gola alla classe dirigente di quest’area geografica che è pronta ad abbracciare il riarmo, la cui economia può rappresentare un’occasione ghiotta anche perché di facile spendibilità politica. Le aziende stanno chiudendo? Nessun problema, mettiamole a fare armi e componenti di arma.
In questo quadro nasce e si sviluppa la crisi della Berco S.p.a: azienda del siderurgico, specializzata in componenti e sistemi per trattori, ma che oggi ipotizza una salvezza fondata sulla riconversione bellica per far fronte al calo della domanda. La ditta ha una sede principale a Copparo, provincia di Ferrara, ma è presenta anche in Veneto con uno stabilimento a Castelfranco Veneto (TV) fin dalla fine del secolo scorso.
C’è da dire che la crisi è stata costante per il sito castellano e che l’azienda è passata in 15 anni da 550 a 150 dipendenti, in una serie infinita di ristrutturazioni di cui oggi assistiamo all’ultimo capitolo. Adesso per la Thyssenkrupp, ci sarebbero almeno 60 dipendenti in più a Castelfranco e 247 a Copparo, ed è per questo che l’azienda li ha messi tutti in cassa integrazione dall’ottobre scorso. In questo senso la risposta dei lavoratori è stata immediata, e tra scioperi, picchetti e tavolate di solidarietà, è dall’anno scorso che si lotta contro la chiusura dello stabilimento. La vicenda ha mobilitato tutto il territorio castellano, interessando anche la politica locale e nazionale, con il ministro Adolfo Urso che durante la giornata nazionale del Made in Italy, voluta dal governo, ha detto “l’Italia può cogliere la difesa come opportunità di sviluppo” e con il sindaco di Castelfranco che si è detto favorevole all’ipotesi, purché il posto di lavoro sia tutelato.
A sfilare durante i presidi ci sono le bandiere della Fiom-CGIL e della Fim-Cisl, due sindacati che stanno lottando uniti sì per salvaguardare la fabbrica, ma che hanno delle ricette un po’ diverse sul futuro della fabbrica. In realtà il sindacato con le idee chiare in questo senso è la Cisl, che per bocca del segretario provinciale dice che la strada per la salvezza è una sola: riconvertire la produzione dal civile al militare, nel solco di quanto già fatto dall’azienda dirimpettaia, la Faber S.p.a., un esempio che viene considerato vincente e assolutamente riproducibile.
Piccolo inciso: la Faber è un’azienda originaria di Cividale in Friuli, che è specializzata nella progettazione, produzione e distribuzione di bombole e sistemi per gas. Nel 2022 fu al centro delle tensioni internazionali quando Draghi usò il golden power (cioè un particolare tipo di intervento statale che serve a impedire che asset industriali strategici escano dal controllo italiano) per bloccarne l’acquisizione da parte del colosso russo Rosatom; durante la crisi del Covid finì a progettare bombole di ossigeno per gli ospedali, oggi, da più di un anno, è l’azienda pilota del riarmo europeo in Veneto.
Si riconverte quindi la produzione come moneta di scambio per la salvaguardia dei posti di lavoro. Dalle bombole alle bombe senza tanti giri di parole, sposato dalla Cisl in maniera esplicita e giustificato dal “Se non lo facciamo noi lo farà qualcun altro”. Una ricetta che è immediatamente spendibile sul piano politico e che restringe nettamente i margini della contrattazione, che cerca di presentare il riarmo come unica scelta possibile per l’opinione pubblica e per gli stessi lavoratori.
In un dibattito dove è ormai sempre più accettata l’idea che questo processo possa andare avanti infatti, la riconversione come soluzione semplice alla crisi industriale è una cosa che stuzzica molti attori sul piano regionale, non solo la Cisl ed Fdi, ma anche lo stesso Luca Zaia che l’anno scorso ha spalancato le porte della regione a Leonardo che con il suo progetto “Cresciamo Insieme” ha come obiettivo quello di coinvolgere le aziende delle varie regioni italiane nella filiera della difesa aerospaziale.
Dopo tutto dice Zaia «Se parliamo semplicemente di business e non dell’aspetto etico, sappiamo che l’industria bellica nella storia ha sempre avuto una produzione – dice il presidente della Regione – e, al di là del contenuto, può essere elemento di produzione. Tutti vorremmo vedere i fiori nelle bocche dei cannoni ma anche questa è economia».
E se ci pensiamo bene realtà come la Berco non sono tanto difficili da riconvertire: l’azienda produce già cingolati, e la casa madre, la Thyssenkrupp, faceva i panzer per la Germania nazista durante il conflitto mondiale e negli oggi locali della Berco, un tempo la Simmels Difesa produceva esplosivi.
La CGIL al momento, come un po’ più timidamente il PD in alcune delle sue mille correnti, sembrano dire di no, ma è indubbio che sono forze che si trovano in difficoltà davanti alla necessità di ottenere la salvaguardia dei posti di lavoro su cui non hanno presentato una vera alternativa.
E nella crisi della Berco, che adesso ha visto una pausa poiché l’azienda sembra aver sospeso i licenziamenti a Copparo, il suo futuro è ancora incerto, soprattutto per i lavoratori di Castelfranco su cui nulla è stato ancora deciso.
Berco comunque non è l’unico caso, è già da qualche tempo che in Veneto, in anticipo rispetto ai tempi del Rearm Europe si fa strada l’idea che la crisi industriale del Nordest possa avere come sbocco quello della trasformazione. Trasformazione che in certi casi è quasi “naturale” e che tenta una parte della classe operaia, che, vedendo minacciato il proprio lavoro, sembra in alcuni casi accettare l’idea che tutto vada bene purché il posto di lavoro sia salvo.
Però attenzione a pensare che gli operai non abbiano una propria sensibilità politica o un’etica, la storia ci insegna che è proprio dalla fabbrica che la guerra può essere sabotata e non tutti i lavoratori sono disposti a vivere sapendo di partecipare alla costruzione di ordigni mortali.
Il Veneto è stato già negli anni ‘70-‘80 protagonista di importanti lotte contro l’industria delle armi e mentre cercavo informazioni sulla Simmels Difesa, cioè l’antesignana della Berco che a Castelfranco produceva ordigni esplosivi là dove oggi stanno i trattori, ho trovato questo volantino che veniva distribuito davanti ai cancelli della fabbrica che recitava nel titolo “Chiudiamo i covi della Produzione bellica chiudiamo la Remie!” (fabbrica di armamenti vicino Bassano del Grappa) che dà l’idea di quella che era e quella che può essere la lotta che dovremo affrontare nei mesi e negli anni a venire.